giovedì 23 gennaio 2014

Racconto del mese: dicembre



La strega

di "wyjkz31" Rossana Zago

 

Catene e buio sono tutto il mondo. Non sento più il lezzo nauseante che mi ha aggredita all’arrivo; ho perso il conto dei giorni trascorsi qui dentro e sono diventata quell’odore disgustoso di sangue, paura e sudore.
Amo le catene che mi impediscono di toccare quello che resta del mio corpo.
La morte. La sento vicina, a volte, e poi, invece, mi risveglio ancora qui. Non può essere peggiore, l’inferno.
Era autunno, tempo di raccogliere funghi e fare scorta di legna per l’inverno. Avrei avuto bisogno dell’aiuto di un uomo, ma un uomo mi aveva avuta, bambina, e avevo promesso a me stessa che nessuno sarebbe più entrato nel mio letto.
Non era una gran vita, la mia, e c’erano cose che mi mancavano; non una casa in muratura o cibo a sufficienza tutti i giorni, o meglio, sì, ma essere libera compensava ogni disagio. In realtà mi mancava una cosa sola: l’amore. E quel giorno d’autunno lo cercavo tra funghi e rami secchi, dove sapevo di non correre il pericolo di trovarlo.
«Ciao» la voce proveniva dalla caverna grande. Non avevo mai creduto che ci abitassero gli spiriti, ma sobbalzai ugualmente.
Un uomo mi stava fissando; arretrai d’istinto.
«Non avere paura» venne verso di me e indietreggiai, consapevolmente . «Non voglio farti del male, non scappare.»
Sorrideva, una chiostra di denti candidi faceva capolino fra labbra rosee come quelle di un bambino, le fossette sulle guance gli davano un’aria inoffensiva.
Mi fermai e impugnai con forza il ramo che avevo appena raccolto. «Parli strano, da dove vieni?» chiesi.
«Hai ragione, sono uno straniero.»
Strinsi con più forza il ramo, pronta a scappare fra gli alberi se solo avesse fatto un altro passo avanti. Lui mi fissava sorridendo.
«Perché lo fai?» chiesi.
«Faccio cosa?»
«Mi guardi e non dici niente. Si può sapere cosa vuoi da me?»
«Che ne pensi se ti aiuto a raccogliere la legna? Vanno bene i rami come questo?»
«Tu non hai mai raccolto la legna, vero?»
«Vero» ammise. «Però sono forte abbastanza per aiutarti a trasportarla. Che ne pensi?»
Mi seguì, carico di legna, per il bosco. Scivolava, cadeva, perdeva rami durante il cammino, sudava e ansimava. Era buffo, faceva tenerezza ma non mi fidavo di lui.
«Ho finito.» Mi avvicinai per prendere la fascina di legna, ma l’uomo sorrise e scosse la testa. «Ti accompagno fino a casa, credo che mi spetti una ricompensa per l’aiuto che ti ho dato.»
Il cuore accelerò i battiti e un velo di sudore mi imperlò la schiena nonostante l’aria frizzante della sera. Non risposi. Scappai. Veloce più che potevo, fra i cespugli spinosi del sottobosco, saltando radici e schivando i rami bassi degli abeti, attenta a non condurlo nei pressi del mio rifugio. Sentivo i passi che mi seguivano, impacciati, sì, ma veloci abbastanza da non lasciarsi distanziare. Ansimavo per lo sforzo e la paura, le gambe doloranti volevano solo fermarsi, ma proseguivo. E lui dietro. Nessuna parola, nessun richiamo. La sua presenza alle spalle, rumorosa come un cinghiale infuriato e altrettanto terrorizzante.
Inciampai, ruzzolai lungo una bassa scarpata e mi fermai a pochi metri da un dirupo.
L’uomo non rallentò e non esitò. Si lasciò cadere e rotolare lungo il pendio, con fidando nella fortuna. Paralizzata dalla paura, vidi il suo corpo avvicinarsi e, senza più controllo, superarmi.
«Aiuto! Aiutami!» urlava l’uomo, le mani aggrappate a una roccia e il corpo dondolante nel vuoto, senza la forza per issarsi in salvo.
Lo guardai. Lo guardai cadere. Lo guardai scomparire nella nebbia d’acqua che risaliva dalle cascate sottostanti.
Nel buio di questa cella lo vedo ancora precipitare e chiamare il mio nome. Come lo sapeva? La domanda mi tormentava assieme al rimorso. Ero un’assassina. Avevo commesso un peccato mortale che avrebbe dannato la mia anima. Quella notte sognai il fuoco e le fiamme dell’inferno.
Non lo sapevo ancora, ma il Signore, o il Demonio, mi aveva offerto una visione di ciò che mi aspettava; un patimento in espiazione del mio peccato o il prologo dei tormenti per la mia anima dannata?
Sono sola, in questa cella, disperatamente . Una strega che non vuole confessare, meritevole delle peggiori torture, dicono, e a volte ci credo. Credo di avere danzato con Satana sotto la luna piena e di aver portato in grembo l’anticristo.
Quando le ferite smettono di sanguinare e il dolore pulsa sordo, costante e quasi sopportabile, allora mi aggrappo ai ricordi, per non smarrire la ragione, per provare a resistere.
Potevo evitare di avvicinarmi alla caverna grande, ma non comandavo alla mente con la stessa facilità con cui comandavo al corpo. Vedevo sempre davanti agli occhi il suo viso sorridente e sentivo nelle orecchie l’urlo che aveva fatto cadendo. Quando me lo ritrovai davanti, lo scambiai per un fantasma.
Scappai e lui dietro, in una replica della fuga di pochi giorni prima, fra sentieri fangosi, sotto una pioggia insistente e gelata. Scivolai, cadendo in avanti tra le foglie marce, lui mi raggiunse e, fra tutte le cose che poteva fare, fece la più incredibile. Si mise a ridere. Una risata aperta, che si allargò nell’aria, sovrastando i fruscii del bosco.
«Dai che ti aiuto; sempre che tu non abbia paura che ti trascini con me nell’aldilà.»
Non avevo intenzione di rischiare e mi rimisi in piedi da sola. «Sei vivo?»
Si toccò il petto con le mani e si diede due schiaffetti in faccia. «Direi proprio di sì. Ho avuto fortuna, l’altro giorno.»
«Quando sei caduto… hai urlato il mio nome. Come facevi a saperlo?»
«Ho sentito parlare di te, giù in paese.»
Non chiesi altro. Immaginavo cosa potevano dire di me i bigotti, che ritenevano salvifici malattie e dolori e peccatore chi tentava di alleviarli, salvo poi acquistare di nascosto le mie pomate e le mie tisane.
Dopo quel giorno lo incontrai ancora, e ancora, e ancora.
Arrivano. Sento i passi e il tintinnio delle chiavi. Sono convinta che facciano più rumore del necessario solo per spaventarmi. L’attesa, le domande, la fila di strumenti di tortura che mi aspettano sono altrettanto atroci del dolore fisico. Prego il Dio in cui nonostante tutto credo. Lo prego di aiutarmi. Davvero non so quale aiuto desidero; riuscire a resistere ancora, morire, smarrire del tutto la ragione. Non so cosa voglio. Mi rimetto alla Sua volontà, ma non trovo conforto.

È finita.
Domani brucerà il mio corpo e la mia anima, nuda, raggiungerà l’inferno per bruciare per l’eternità. Così hanno detto.
Non ho ammesso i miei peccati e brucerò viva. Non mi sarà concessa una morte pietosa prima che venga appiccato il fuoco. È quello che volevo, ma ora ho paura che sia solo un sogno, un’illusione o, peggio, un tranello del maligno.
Raggiungere il luogo in cui mi rifugio per sfuggire al presente è difficile, quando anche respirare mi procura dolore.
Sentivo che in Robin c’era qualcosa di anomalo. Non solo i denti, bianchi e perfetti come non ne avevo mai visti, ma tutto il suo aspetto faceva pensare a una persona molto giovane, invece era un vecchio. Trentaquattro anni. Quando mi disse l’età risi. «Mi prendi in giro. Ho la metà dei tuoi anni e sembriamo fratelli, non è possibile.»
«Da dove vengo io la gente resta giovane a lungo.»
Vedo ancora i suoi occhi, lucenti, che mi fissano e io che mi specchio nelle sue pupille grandi e capisco, senza possibilità di errore, che mi ama.
Il mio primo, unico amore. Il primo e unico uomo che ho baciato.
Il desiderio di sfiorare, anche solo per un momento, le sue labbra è tanto intenso da farmi scambiare il refolo gelido che si insinua nella cella per l’alito caldo di Robin. Socchiudo le labbra screpolate e attendo, invano.
Robin era uno straniero, per il modo di fare, di pensare, per i discorsi che faceva. Ci incontravamo nella caverna grande, la sua casa. Una casa piena di oggetti che non avevo mai visto, magici e spaventosi. Mai ho pensato che potessero essere emanazioni del maligno.
C’era in lui tanto amore per me che avevo l’impressione di amarlo solo perché lui mi amava. Nessun demonio poteva essere capace di amare tanto intensamente .
Entrai nel suo letto. Superai il ribrezzo, la paura, i ricordi e lo amai. Nascosi il ventre gonfio fin quando fu possibile e in seguito uscii di casa solo di nascosto. Giunto il momento, andai da Robin.
Non provai dolore. Per i giudici la prova che avevo dato alla luce il figlio del demonio.
Non lo so, se sia vero. So che i formicolii al ventre erano piacevoli e, dopo una breve pressione, mio figlio scivolò fuori, nel tepore della caverna, senza un lamento.
L’ho attaccato al seno una sola volta, prima che ci trovassero.
«Non posso portarti con me, non adesso. Ti amo. Fidati, ti prego» le ultime parole di Robin. Si allontanò e scomparve con il nostro bambino, come se non fossero mai esistiti.
Il dolore cui sono sfuggita mi è stato restituito, perché una figlia di Eva non può sottrarsi alla condanna divina. Hanno ragione, lo so.
Vorrei fare il bagno. Desidero immergermi nell’acqua tiepida e lavare dal mio corpo il ricordo della prigione. È un’abitudine che mi ha insegnato Robin ed è male, so anche questo.
Non mi salverà dal fuoco, come ha promesso, non mi porterà in un mondo migliore, non guarirà le mie ferite e non vivremo felici per il resto della nostra vita: l’approssimarsi della morte mi ha tolto l’ultima illusione. Domani implorerò il perdono per i miei peccati.

Ho sognato il mio bambino. Muoveva i primi passi appoggiandosi al muro; volevo chiamarlo, ma non potevo perché non conoscevo il suo nome.
Per colpa mia è nato dannato senza speranza di redenzione.
«Strega» il frate usa il crocefisso come uno scudo. «Pentiti!» La voce risuona potente nel silenzio della piazza. Centinaia di persone mi fissano, gli occhi pesti non mi consentono di vederle, ma sento i loro sguardi pungere sulla pelle.
Vogliono lo spettacolo completo e non li deluderò.
Scuoto la testa, andrò all’inferno se è l’unico modo per rivedere mio figlio. In silenzio chiedo perdono a Dio per averlo rifiutato.
Tossisco per il fumo e sento il crepitio della legna in fiamme. Sono dolore, oltre ogni immaginazione, e odore di carne bruciata.
Fra le urla che non riconosco come mie, sento la voce di Robin che mi chiama.

 

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