mercoledì 26 ottobre 2016

Recensione de La vita va avanti di Vito Ferro, Autori Riuniti



La vita va avanti. Sì. Ma come? Il protagonista Armando Pittella aspirante scrittore, castano, occhi tristi, capelli corti, forse ha un cane. È solo e disorientato. Cosa gli è successo? Dove si trova? Cerca delle voci come ricordi. Il muro davanti ha uno spiraglio. L’umidità è una mano che lo riporta laggiù da dove tutto è cominciato. Alla sua vita. Sì perché Armando è morto. Si risveglia in una sorta di vita non vita nel cimitero dove è sepolto. È una strana sensazione che il lettore percepisce come una condizione a cui appellarsi quando il dolore per la perdita dei nostri cari è struggente. La nostalgia è una costruzione insolita, passa per il protagonista che fluttua con la vita sotto i piedi. Oppure era dietro le spalle? O in mezzo a qualcosa che non riusciamo a definire subito?
La luce tremolante del televisore del custode del cimitero rende la sensazione del trapasso e di una condizione vacillante. Come la stessa vita o la stessa morte che qui è presentata come l’ultima appendice di una vita. Armando non è solo. Ad abitare il cimitero altri che come lui si sono svegliati nel giardino. Non possono uscire da quelle quattro mura, aspettano un parente, aspettano di vedere voci e volti noti per poter ricordare ancora un pezzetto di vita che sembra svanire attimo dopo attimo. Ma chi erano? Cosa rappresentano per il lettore e per Armando?

La vita è una tale distrazione che non si lascia neanche prender coscienza di ciò da cui ti distrae.” (F. Kafka)

Filippo è morto giovane. Alessio morto affogato, è uscito dalla tomba ma non riesce a parlare. È il pensiero muto. Armando non ricorda niente. L’anima diventa una propaggine inquieta. È una trasposizione. La compagnia tra i morti non è salvezza, ma sofferenza. Non mangiano, non dormono, non sognano. I personaggi sono i diversi alter ego di Armando. Saverio soffre, non esce dalla tomba. La sofferenza che Armando chiude e trattiene in se stesso. Le mancanze un elenco inutile a rileggerlo che prende senso dopo la vita, quella a colori. Chiara la donna di Armando. L’attesa. La felicità è un “ricordo” dolce, pensa Armando.

Non sanno quando sarà come sarà dove andranno, solo questo li accomuna ai vivi, ancora”.

La loro condizione non sarà per sempre. Svaniranno prima o poi e si dilegueranno solo dopo cosa? Ecco che qui il libro sa trasportare fino in fondo alla morte. O alla vita dove il destino è una riga immaginaria. Separa le sponde di un fiume fatto di altre storie di terra.
Ma non tutti hanno accettato di essere morti. Il senso claustrofobico della bara è la prigione dei sentimenti o rammarichi più intimi. Ma la morte come ce la presenta Vito Ferro è una morte che assomiglia a un’appendice. La morte come una vetrina allo specchio.

Ho pena delle stelle che brillano da tanto tempo, da tanto tempo...Non ci sarà dunque, per le cose che sono, non la morte, bensì un’altra specie di fine, o una grande ragione: qualcosa così, come un perdono?”( F. Pessoa)

I personaggi si rivolgono agli altri come se fossero ancora in strada, al bar a discutere di politica. È una condizione che sposta l’equilibrio tra quello che possiamo credere e quello che crediamo davvero. Il cuore è sempre il senso delle cose. La morte accarezza tutti, non si impietosisce di lustri e onori.
Niente resta. Quanto si può resistere?”.
È una morte vista da tutti i punti di vista. È la morte di chi rimane appeso, di chi rimane a passeggiare tra le tombe, è la morte di chi non ha più nulla da perdere. È la morte di chi aspetta la morte. È un libro che fa da ponte. Una sorta di lucernario dove le cose non sono nitide come le ricordavamo ma prendono un’altra forma. Una forma instabile ma importante. Il silenzio è una figura densa. Al contrario della nebbia, ma Vito Ferro ci sa regalare un finale con il sole.
Lascia perdere Armando per quieto vivere”.


Samantha Terrasi